Ci si stupisce quando in Francia accolgono dei film italiani "impegnati" socialmente o politicamente con grande entusiasmo, anche se questi sono di lega tutt'altro che nobile (i film di Damiani, tanto per far nomi). Ma è assistendo a delle illustrazioni come quelle di questo film di Deville che se ne comprendono perfettamente le ragioni. Forse mai come in questi anni, esauritosi il rinnovamento linguistico di Godard, o quello di Resnais e di non molti altri, il cinema francese vagola disperatamente alla ricerca di un filo conduttore, di una giustificazione tematica o morale che ne indirizzi i vari temperamenti. Abbandonati a se stessi, questi temperamenti sfociano in esercitazione (ma il termine dovrebbe essere un altro) intellettuali del genere di questo RAPHAEL OU LE DEBAUCHE', tentativo, se ho capito bene, di giungere ad una specie di purezza dei sentimenti attraverso una determinata ricerca estetica; ad uno stato di grazia emotivo che arrivi a giustificare un comportamento esistenziale apparentemente negativo.
Sarebbe forse troppo semplice liquidare queste cose con il termine di calligrafismo o di estetismo. Anche se questo trionfa ovunque: stagni in controluce e veli svolazzanti di vergini più o meno autentiche, cavalli scalpitanti e locande ottocentesche nella migliore tradizione delle pubblicità per deodoranti maschili.
Ma più che di questo è un fardello di letteratura mal digerita, di simbolismo pesante e fuori posto che grava su questo cinema. Un cinema che vorrebbe ritrovare una purezza sentimentale assente, forse, nella vita di oggi. Ma che la cerca in un modo da far sperare che non la ritrovi mai.